La commemorazione del 12 agosto 2025 al confine Spruga/Bagni di Craveggia ha avuto anche diversi discorsi ufficiali da parte di Ruth Dreifuss, Jakob Tanner e Alexander Grass. Riportiamo in questo contributo i vari discorsi.
Discorsi ai Bagni di Craveggia, 12 agosto 2025
Jakob Tanner
Pietre d’inciampo – un legame tra il presente e il passato
Gentili signore e signori, cari amici
È per me un grande onore potervi parlare oggi qui ai Bagni di Craveggia. Vorrei portare i saluti dell’associazione Stolpersteine Schweiz, di cui sono qui in rappresentanza. Questa associazione è stata costituita nel Duemilaventi e, con il sostegno di gruppi regionali, ha finora posato quasi cinquanta di pietre d’inciampo in tutte le parti della Svizzera. E ora tre di queste pietre stanno per essere posate qui. È la seconda volta nel Ticino. Vorrei ringraziare tutti coloro che hanno reso possibile l’evento di oggi, in primo luogo il Gruppo per la Memoria e le autorità municipali locali.
Le pietre d’inciampo sono il più grande monumento o memoriale decentralizzato del mondo. Oggi ne esistono più die centomila in tre dozzine di Paesi europei. Sono state progettate dall’artista di Colonia Gunter Demnig, che negli anni ’90 ha iniziato a dare alle vittime del nazismo una storia individuale, commemorando il loro destino con un oggetto cubico incastonato in un’area pubblica.
Cinque anni fa, noi, membri fondatori dell’associazione, ci siamo resi conto che la Svizzera stava per diventare un’isola in questo paesaggio commemorativo europeo. Così come il Paese si considerava un’isola neutrale durante la Seconda guerra mondiale, che si era opposta con successo a tutti i pericoli e non si era lasciata incolpare di nulla, oggi vorrebbe anche escludersi dalla memoria transnazionale dei crimini del fascismo e del nazionalsocialismo come una piccola isola di beati ben protetti.
Per ovviare a ciò, abbiamo tradotto in un contesto svizzero l’idea originaria di Gunter Demnig che ha avuto l’idea di posizionare le pietre sempre nell’ultimo luogo di residenza prima della deportazione. In Svizzera la questione si poneva in modo diverso. Una domanda pertinente che è emersa in questo Paese risparmiato dalle distruzioni della guerra è: Dove si sono rifugiati i perseguitati, qual è stato l’ultimo luogo in cui sono andati a cercare sicurezza, per poi essere respinti in molti casi e consegnati ai loro rapitori e mandati a morte. Questi luoghi erano spesso situati al confine della Svizzera. Ad esempio ai Bagni di Craveggia. Nel luogo in cui ci troviamo ora, la Svizzera, ovvero le sue truppe di frontiera che si discostavano dagli ordini generali, era per una volta pronta ad accogliere i fuggitivi, mentre all’ultimo momento, prima di attraversare il confine, furono colpiti dal fuoco delle squadre
fasciste. E questo anche quando si trovavano già sul territorio svizzero. La drammatica storia dei circa 500 combattenti e civili della Repubblica partigiana d’Ossola, che nell’autunno del 1944 fuggirono verso la Svizzera a causa della grande offensiva fascista, verrà raccontata in dettaglio tra poco da Alex Grass. È molto importante rendersi conto che la storiografia e la cultura del riconoscimento dipendono l’una dall’altra e non sono realizzabili senza un’interazione.
Da un lato, perché la ricerca scientifica deve essere pubblicizzata e diffondersi tra i media e la popolazione. Dall’altra, perché la memoria collettiva deve basarsi su fatti verificati. Vorrei menzionare in particolare il libro pubblicato pochi mesi fa, curato da Rafael Rues „Confine di sangue. I fatti dei Bagni di Craveggia 18-19 ottobre 1944”, con testi di Vasco Gamboni, Alexander Grass, Nicola Guerini e Fiorenzo Rossinelli.
Vorrei concludere con la seguente riflessione: Ricordare è il rovescio della medaglia del dimenticare. Molto, quasi tutto ciò che accade nella vita, prima o poi svanisce dalla memoria. Proprio perché dimenticare è un processo involontario e inconscio, è importante lavorare sulla memoria. Ogni società deve concordare su quali eventi e aspetti del passato non devono essere dimenticati perché sono importantissimi per orientarsi nel presente. Abbiamo bisogno di interventi attivi nella cultura del ricordo, che idealmente, come oggi, assume una forma partecipativa.
Il ricordo intergenerazionale è rilevante perché le cose a cui si riferisce – discriminazione, esclusione, antisemitismo, razzismo, persecuzione, fuga, depredazione e distruzione – sono ancora oggi problemi acuti che non possiamo ignorare. La cerimonia commemorativa odierna dimostra anche che la memoria nasce dai conflitti e continua a presupporre la volontà di lottare per i valori umani. Confrontati delle attuali tendenze fasciste in molti paesi è particolarmente indispensabile non solo mantenere viva la tradizione storica dell’antifascismo, ma anche scoprire cosa significa oggi un atteggiamento antifascista aggiornato.
In questo senso, la posa delle tre pietre d’inciampo crea anche un legame tra il presente e il passato. Un rapporto che rende immaginabile un futuro di speranza. Questo è oggi più urgente che mai.
Grazie per la vostra attenzione.

Alexander Grass
Tre giovani vittime
Oggi siamo qui per posare delle pietre d’inciampo in ricordo dei partigiani che sono stati uccisi o gravemente feriti qui. Adriano Bianchi – Renzo Coen – Federico Marescotti
Il primo era figlio di agricoltori, il secondo figlio di un impiegato, e il terzo figlio del vicedirettore del Politecnico di Milano. Tutti erano partigiani perseguitati dei fascisti italiani e dalle SS tedesche. Due persero la vita qui, uno sopravvisse, gravemente ferito.
Qui nei bagni di Craveggia, è stato scritto uno degli ultimi capitoli della repubblica partigiana dell’Ossola. L’Ossola è stata liberata il 10. Settembre 1944 e il 14. Ottobre 1944 la repubblica partigiana cadde sotto il contrattacco di un numero superiore di truppe nazifasciste. Il tentativo di fermare i fascisti nella Valle Cannobina fallì e così cominciava il ritiro dei partigiani verso i Bagni di Craveggia. A metà ottobre erano presenti 250 profughi civili ma anche 256 partigiani. I civili ricevettero subito rifugio in Svizzera, ai partigiani, considerati in non imminente pericolo di vita, non fu permesso di passare il confine.
I partigiani erano senza speranza, in parte malati, scoraggiati, sfiniti e senza il benchè minimo alimento. Il 18 ottobre arrivarono gli inseguitori fascisti e aprirono il fuoco con me mitragliatrici, con colpi che arrivarono anche su suolo svizzero. Si parla di fino a 30’000 colpi. Solo grazie all’agire degli ufficiali svizzeri il confine è stato aperto e un bagno di sangue ha potuto essere evitato.
Nel corso dei “fatti dei Bagni di Craveggia” del 18 ottobre 1944, Adriano Bianchi fu ferito dal fuoco fascista, subì una frattura complicata alla gamba destra e al calcagno sinistro. Bianchi rimase tutta la notte dietro un masso – solo il giorno dopo il suo amico Mario ed un finanziere italiano che erano già in salvo su territorio svizzero tornarono in quello italiano per cercare e salvare Bianchi.
Bianchi sopravvisse grazie alle cure nell’ospedale La Carità a Locarno e morì nel 2012 a Tortona.
Renzo Coen fu ferito al collo e un altro colpo perforò il suo polmone, Coen fu trascinato dai compagni per salvarlo oltre il confine su territorio svizzero. Coen morì due giorni dopo, il 20 ottobre, all’ospedale la Carità a Locarno – in presenza di suo padre che era rifugiato in Svizzera. Solo due mesi dopo morì anche la sorella di Coen, anche lei era rifugiata in Svizzera. La madre era morta quando Coen era ancora un piccolo bambino. Il padre Gaddo rimase solo e morì nel 1954.
Infine, Marescotti subì multiple ferite da raffiche di mitraglia, quando era già in territorio svizzero a 100 metri dal confine. Marescotti è morto immediatamente sul posto qui nei Bagni di Craveggia il 18. Ottobre 1944. La salma di Marescotti venne scortata non solo da partigiani ma anche di soldati Svizzeri e venne sepolta nel Cimitero di Comologno. Dopo la fine della guerra le spoglie di Marescotti furono portate al Cimitero Monumentale di Milano.
La storia di Bianchi e Coen aveva alcuni punti in comune: entrambi erano già stati accolti nel 1943 come rifugiati in Svizzera. Bianchi era fuggito in Svizzera perché, dopo l’armistizio dell’8 settembre aveva rifiutato il servizio militare fascista e voleva evitare d’essere arrestato e portato nei campi in Germania. Coen era ebreo e prese la fuga a causa della persecuzione razziale. Nell’estate del 1944 Bianchi e Coen decisero di tornare dalla Svizzera in Italia per unirsi ai partigiani.
Marescotti fu chiamato nell’esercito italiano, rifiutò assieme con la sua unità di essere integrato nell’esercito della repubblica di Salò, fu internato in un campo di concentramento, riuscì a fuggire, svolse compiti di intelligence e si unì ai partigiani in Val Vigezzo.
Al momento dei fatti qui nei Bagni di Craveggia Bianchi, Coen e Marescotti avevano solo 22, 20 e 24 anni.
Bianchi ha militato per 90 giorni per i partigiani, Coen 29 giorni e Marescotti solo 24 giorni. Pochi giorni, che hanno deciso la vita di Bianchi, Coen e Marescotti. Vorrei citare Adriano Bianchi: “È il momento di ricomporre l’immagine del nostro paese, non possiamo restare alla finestra. Se vogliamo essere creduti dobbiamo testimoniare ora, sotto il terrore, che le coscienze sono divenute libere.” Nella grande Seconda guerra mondiale, la piccola repubblica partigiana dell’Ossola può apparire come un episodio quasi insignificante. Invece non lo fu: apparve a tutti chiaro che in Italia vi erano delle forze che potevano legittimamente reclamare il diritto di costruire l’Italia del dopoguerra, la loro Italia, e il significato politico e morale che ne derivò fu elevatissimo.
Con queste pietre d’inciampo vogliamo ricordare il tragico destino e il valore di tre uomini che non hanno esitato a mettere in gioco la loro vita per costruire l’Italia della Resistenza, l’Italia libera del dopoguerra.
Ruth Dreifuss
Pierres d’achoppement aux Bagni di Craveggia pour trois résistants de la République Partisane de l’Ossola
Mesdames et Messieurs,
Chers et chères amies,
Ce qui nous réuni aujourd’hui, c’est le souvenir de trois jeunes hommes, Renzo 20 ans, Federico 24 ans, Adriano 22 ans. Trois résistants de l’éphémère Repubblica Partigiana de l’Ossola, abattus par les troupes fascistes et nazies. Si Adriano a survécu à ses blessures, Renzo et Federico en sont morts. Nous voulons les garder vivants dans notre mémoire, dans la mémoire de ce lieu précis. Nous voulons que reste dans ce paysage un rappel de leur présence et du combat qu’ils ont mené.
Ils sont arrivés ici avec leurs compagnons, se repliant face à l’avance et à la supériorité militaire des troupes conjointes nazies et fascistes. A la frontière de la Suisse, ils avaient l’espoir de pouvoir s’y réfugier, ils avaient encore l’espoir d’échapper aux tirs des poursuivants. Nous devons rappeler pour quelle cause ils s’étaient engagés, la libération de leur pays de la dictature, de l’occupation, du fascisme. Leur lutte était portée par l’espoir de reconstruire une Italie qui soit démocratique et plus juste.
L’histoire de ces trois hommes s’inscrit dans une multitude d’histoires, celles de leurs familles, celles de leurs camarades, celles aussi des personnes qui se sont accommodées du fascisme ou qui y ont adhéré, celles des soldats suisses à la frontière, celles des habitants et habitantes de l’Ossola et du Tessin. Toutes ont été confrontées à des dilemmes : rester ou émigrer, s’engager ou se terrer, aider des victimes ou leur refuser un soutien, résister ou collaborer, ouvrir la frontière ou refouler les personnes poursuivies… En rendant hommage à Renzo, Federico et Adriano, nous rendons hommage au choix qu’ils ont fait.
J’aimerais aussi rendre hommage aux Tessinois et Tessinoises qui ont choisi d’aider activement la résistance italienne et les réfugiés du fascisme et du nazisme. Contre les lois et règlements édictés alors en Suisse. Hommes et femmes ont choisi la solidarité et non l’obéissance. Les vieux chemins de contrebande ont été parcourus, dans les deux sens, par des résistantes et résistants, par des passeurs accompagnant des réfugiés qui auraient été refoulés s’ils avaient sollicité l’asile aux postes de frontière. Une figure à la fois modeste et lumineuse de cette solidarité tessinoise doit être nommée ici : Gaby Antognini.
Il y a jour pour jour 76 ans aujourd’hui que furent adoptées les Conventions de Genève. Les pierres angulaires du droit international humanitaire énoncent les règles que tous les Etats doivent respecter en matière de droit international humanitaire, soit l’obligation en temps de guerre de protéger les civils, les membres de l’aide humanitaires, les blessés et les prisonniers de guerre. Il est vrai que les événements qui nous réunissent aujourd’hui, et qui ont eu lieu à cette frontière en octobre 1944, sont antérieures à l’adoption des Conventions de Genève, même si celles-ci avaient été précédées dès 1864 de plusieurs premiers textes.
Si je conclus quand même mon intervention par le rappel de l’importance des Conventions de Genève et du droit humanitaire international, c’est pour deux raisons: rappeler que ce ne sont pas seulement les belligérants directs qui ont des obligations selon le droit humanitaire international, mais également les Etats qui ne participent pas directement aux affrontements : en particulier les Etats neutres. Aux Bagni di Craveggia, la Suisse a ouvert la frontière et empêché le massacre des fugitifs. Mais nous savons aussi qu’elle n’a pas accordé aux partisans le statut de prisonniers militaires et que les conditions dans les camps d’internement – je pense en particulier à celui de Büren an der Aare – peuvent être qualifiées de cruelles. Aujourd’hui, elles seraient considérées comme violant les Conventions de Genève.
Il y a une seconde raison de rappeler les Conventions de Genève aujourd’hui ? Comment ne pas être obsédé par la discrépance entre les obligations qui incombent à tous les belligérants et les informations qui nous viennent quotidiennement de Gaza, d’Ukraine … qui nous parviennent trop rarement du Soudan … alors que nous n’avons même pas connaissance d’autres conflits sanglants? Comment ne pas se souvenir que ce sont les atrocités de la seconde guerre mondiale qui ont conduit à établir des règles en faveur des victimes, civiles et militaires, de toutes les guerres à venir. Des règles quotidiennement violées à Gaza comme en Ukraine.
La Suisse a permis en 1944 de prévenir un massacre à cette frontière. La Suisse doit tout faire pour prévenir que se poursuive le massacre et les tentatives d’expulsion de Palestiniens et de Palestiniennes à Gaza, pour que l’aide humanitaire soit rendue accessible à toute la population, pour accueillir dans ses hôpitaux ceux et celles qui ne peuvent être soignés sur place.
La Suisse doit cesser toute collaboration qui pourrait légitimer l’occupation et soutenir la poursuite de la guerre. Ce n’est pas un choix. C’est une obligation.