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Il problema della frontiera ticinese nel 1943-1945

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Uno degli aspetti più interessanti nello studio degli avvenimenti durante il periodo 1943-1945 è quanto succede sul confine meridionale della Svizzera con l’Italia. Un confine di circa 160km rimasto fino al 8-10 settembre 1943 senza troppe conseguenze dal conflitto bellico. Tutto cambiò dopo l’annuncio dell’armistizio del 8 settembre. Vi furono 2 giorni di disorientamento, dopodiché circa 20-25000 persone si riversarono dall’Italia verso il confine (vedi per esempio Luigi Berlusconi, padre di Silvio Berlusconi). Scappavano dall’occupazione tedesca del Nord Italia. Un aspetto tanto nevralgico quanto poco studiato è la presenza militare al confine con l’Italia. Questo breve contributo si prefigge di portare qualche chiarimento.

A partire dal 1938, la gestione del dossier dei rifugiati venne affidata all’Esercito Elvetico. Questa decisione fu presa nel tentativo di evitare gli errori commessi durante la Prima Guerra Mondiale e per prevenire un sovraffollamento di rifugiati, con particolare attenzione alla situazione degli ebrei e dei comunisti. In questo contesto di riorganizzazione, l’Esercito modificò il suo assetto creando per il Canton Ticino una Grande Unità: la Brigata Frontiera 9. Questa unità venne istituita ufficialmente il 1 aprile 1938, in concomitanza con l’entrata in vigore dell’Ordinanza sull’organizzazione delle Truppe di Frontiera.

Sin dalla sua costituzione, la Grande Unità Ticinese dovette affrontare diverse problematiche organizzative. La più significativa fu la carenza di effettivi necessari per completare l’organico, tanto che una parte dei militi si trovò ad avere una doppia incorporazione: sia nella brigata originale che nella Brigata Frontiera 9. Questa situazione creò notevoli difficoltà gestionali per il Cantone, in particolare per l’allora capo del Dipartimento Militare cantonale, Emilio Forni. Le autorità di Berna faticarono a comprendere appieno la complessità della situazione, e fu necessario l’intervento mediatore del Generale Guisan nel 1942 per placare le tensioni.

Generale Henri Guisan, capo delle forze armate elvetiche durante la Seconda Guerra Mondiale.

La missione principale della Brigata Frontiera 9, come suggerisce il nome stesso, era la copertura del confine. In caso di attacco, l’unità aveva il compito di contenere l’avanzata nemica. Le analisi strategiche dell’epoca consideravano relativamente facile un’eventuale invasione nel Ticino meridionale, con l’eccezione della diga di Melide che costituiva un punto di resistenza naturale. Al contrario, il Ticino settentrionale presentava maggiori difficoltà per un potenziale invasore, grazie alla conformazione del territorio caratterizzata da strette strade, vallate impervie e numerosi ponti che potevano essere utilizzati per tendere imboscate all’avversario.

Granatieri dell’Esercito elvetico impegnati in esercizi di combattimenti in abitati, 1944.
Fonte: Archivio Federale Berna

Con la mobilitazione generale del 2 settembre 1939, divenne evidente che gli effettivi ticinesi non erano sufficienti per garantire una difesa adeguata del confine meridionale della Confederazione. Per ovviare a questa carenza, la Grande Unità ticinese venne rinforzata con l’invio di unità provenienti dalla Svizzera tedesca e dalla Svizzera francese. Quello che inizialmente poteva sembrare un dispiegamento quasi pittoresco – con i soldati confederati che scoprivano le famose palme ticinesi e l’uva americana – si trasformò in una situazione drammatica a partire dal settembre 1943.

Savoia Cavalleria impegnato nell’ultima carica a Izbushensky, Russia Occidentale. Fonte: Wikipedia.

L’armistizio dell’8 settembre 1943 provocò un massiccio afflusso di militari italiani verso il confine ticinese. Un episodio emblematico fu quello del reggimento “Savoia Cavalleria”, che nella notte del 12 settembre 1943 varcò il confine a Ligornetto con 600 uomini e 325 cavalli. Si trattava di un’unità prestigiosa che solo tredici mesi prima, il 24 agosto 1942, era stata protagonista a Izbushensky (nell’Oblast di Volgograd, al confine orientale dell’attuale Ucraina) dell’ultima grande carica di cavalleria della Seconda Guerra Mondiale. Insieme ai militari e ai civili italiani, cercarono rifugio in Svizzera anche ex prigionieri di guerra alleati ed ebrei. Mentre i primi venivano generalmente accolti senza particolari difficoltà, gli ebrei furono sistematicamente respinti.

Film Carica Eroica del 1952 basato su quanto il “Savoia Cavalleria” fece nella carica di Isbuscenskij.

A ottant’anni di distanza, risulta difficile stabilire con precisione il numero esatto dei respingimenti e l’identità di tutte le persone respinte. La maggior parte di coloro che venivano respinti non lasciava testimonianze scritte, e molti di loro finivano catturati dalle forze tedesche. Il tragico destino di questi rifugiati seguiva spesso un percorso simile: dopo settimane di detenzione nelle carceri di Como, Varese e Novara, gli ebrei respinti venivano trasferiti al carcere di San Vittore a Milano, per poi essere deportati ad Auschwitz con convogli ferroviari che partivano dalla Stazione Centrale di Milano. Disponiamo di diverse testimonianze svizzere di questi respingimenti, tra cui spiccano le lettere dell’ufficiale Erwin Naef di Rohrschach alla moglie, nelle quali descrive il profondo strazio umano nel dover respingere intere famiglie ebraiche che cercavano salvezza in Svizzera.

Granatieri dell’Esercito elvetico durante fasi d’istruzione al combattimento ravvicinato, probabilmente locarnese 1944. Fonte: Archivio Federale Berna

I respingimenti furono un fenomeno diffuso lungo tutta la frontiera ticinese. Mentre non esistono testimonianze dirette di unità ticinesi coinvolte nei respingimenti, sono documentati numerosi casi che coinvolgono unità provenienti da altri cantoni. Un esempio particolarmente significativo è quello della famiglia della futura Senatrice a vita Liliana Segre, respinta da un’unità di fanteria del Canton Friburgo nei pressi di Arzo, a pochi chilometri da Ligornetto.

https://youtu.be/0stkYSEmUwM?si=2ZjCqNSAJvb_hUff
Testimonianza di Liliana Segre rilasciato nel 2023 sul suo respingimento da parte di un’unità dell’esercito elvetico.

Anche nella zona del Lago Maggiore si verificarono numerosi respingimenti di famiglie ebree. Le famiglie Gruenberger e Latis furono respinte a Brissago nel dicembre 1943, ma i respingimenti si estesero anche alle zone più settentrionali. La scrittrice Aline Valangin, nel suo romanzo, racconta di famiglie ebree provenienti da Alessandria respinte a Spruga, in Valle Onsernone. Tuttavia, alcune famiglie riuscirono a varcare il confine, non solo quelle benestanti ma anche quelle più povere che, dopo aver speso i loro ultimi risparmi, trovarono il modo di attraversare la frontiera.

Famiglia Gruenberger respinta a Brissago il 17 dicembre 1943. Insubrica Historica ha dedicato la pubblicazione Respinti a questo caso di respingimento.

La politica dei respingimenti non si attenuò con il protrarsi della guerra. Ancora nel settembre-ottobre 1944, centinaia, se non migliaia di persone – civili, partigiani ed ex prigionieri alleati – venivano respinti al confine ticinese. Come ha efficacemente sottolineato lo storico italiano Michele Sarfatti, il vero problema non era tanto raggiungere la frontiera, quanto riuscire ad attraversarla.

Elenco parziale delle persone che riescono ad entrare in Ticino, dal solo valico di Cortaccio (1024m) sopra Brissago. Complessivamente circa 300 persone sono entrate da questo valico, rimane ignoto il numero di respingimenti.

A ottant’anni da questi eventi, è fondamentale trarre degli insegnamenti da quanto accadde nel periodo 1943-1945. Un eventuale futuro conflitto alle frontiere svizzere porterebbe inevitabilmente a problematiche simili riguardo la gestione dell’afflusso di rifugiati e persone disperate ai confini nazionali. Nel 1942, quando venne utilizzato l’eufemismo “La barca è piena”, i rifugiati erano complessivamente solo 250.000 su una popolazione di circa 4.000.000 di abitanti. È auspicabile che la Confederazione, nel periodo post 2025, abbia sviluppato scenari e protocolli adeguati per gestire in modo più umano e organizzato un possibile nuovo afflusso di persone ai propri confini.

Delfino Delfo Bava ragazzo di 15 anni di Cannobio, respinto dalle autorità elvetiche una prima volta nel settembre 1944, riesce ad entrare in Svizzera dal valico di Palagnedra un mese dopo. Rimane in diversi campi d’internamento in Svizzera fino all’estate 1945. Fonte: Un paltò fuori stagione di Carlo Bava.

 

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